Nel 2018, la giovanissima deputata di origini portoricane Alexandria Ocasio-Cortez, presentando la sua candidatura al Congresso USA pronunciò un discorso accorato in cui faceva riferimento alla sua infanzia nel Bronx di New York: «sono nata in un luogo – disse – in cui il tuo codice postale determina il tuo destino».
Questa frase mi è tornata in mente mentre leggevo l’articolo in cui Silvia Pedemonte ha riportato il report Istat per la commissione parlamentare di inchiesta sulle periferie. Tra i dati elencati nell’articolo spiccano le differenze nettissime tra gli indicatori socio-economici dei quartieri del Centro e del Levante e le periferie popolari. Tra tutti, in particolare, l’indice di disoccupazione e la percentuale dei giovani che non studiano e non lavorano, la cui media cittadina (18%) si impenna progressivamente quando ci si sposta a Ponente o nelle valli fino ad arrivare al picco del 28% nel quartiere Cep.
28% significa che quasi un ragazzo su tre, in uno dei quartieri con più giovani della città, non lavora e non frequenta alcun corso di istruzione o formazione. Si affaccia alla vita e vive già come se fosse al capolinea, in balia dell’inedia, della rassegnazione, se non già della devianza e delle tante dipendenze. I Neet così li chiamano la burocrazia e la stampa, sono uno su cinque in Italia, poco più di uno su dieci in Europa.
Ma qui, in un quartiere della nostra città ce n’è uno su tre. Chi legge questo giornale difficilmente li incontra, se non per caso, su un mezzo di trasporto, o in una triste vicenda di cronaca. Perché la dispersione scolastica ed esistenziale, il disagio, la sofferenza dei giovani stanno soprattutto in periferia, lontani dalla “città di sopra”, quella che approfondisce le notizie e i commenti.
Uno su tre è un dato terrificante. Lo è a maggior ragione in una città in cui i giovani sono pochi per cui dovrebbero essere preziosi, coccolati, protetti, mentre noi lasciamo che buttino la vita nella tristezza e nell’autolesionismo.
Uno su tre dovrebbe essere un indice di allerta, come fu l’impennata dello spread in Italia nel 2011, che portò a decisioni politiche nette e di rottura. Ma se una crisi economica, comprensibilmente, ci indigna e ci preoccupa, per questi 28 ragazzi su cento non vedremo manifestazioni pubbliche, interventi indignati, manovre politiche.
Anzi, negli anni abbiamo permesso che venisse sistematicamente depotenziato il sistema di assistenza: dai distretti sociali privi di risorse, alle scuole di quartiere trasformate in ghetti, alla fuga degli educatori professionali sottoposti a condizioni contrattuali pessime, fino al sovraccarico della giustizia minorile con l’aumento degli arresti e la restrizione della rete delle comunità, uniche alternative alla prigione.
Certo, resta l’impegno straordinario di tanti operatori: l’assistente sociale esperto di arti marziali che si offre di allenare personalmente il ragazzo tossicodipendente per tenerlo lontano dalla strada e dallo spaccio, la docente in pensione che continua a passare le mattine a scuola per sostenere le colleghe, la volontaria universitaria di Sant’Egidio che passa il week-end a lavorare al ristorante per poter portare in vacanza i bambini da strappare alla marginalità.
Ma la retorica degli “operatori missionari” nasconde solo, come un brutto maquillage, la cruda realtà, che forse, con coerenza, dovremmo essere capaci di affermare: semplicemente di quei ventotto ragazzi su cento non ci interessa, non sono una nostra priorità.
Se non è così, c’è solo una cosa da fare: iniziare a chiederci con serietà, tutti, che cosa possiamo fare di più, quali risorse possiamo mettere in campo, anche – vogliamo dirlo? – a cosa siamo disposti a rinunciare pur di salvare almeno uno di questi ragazzi.
Non è troppo tardi, non lo è mai. La modesta proposta, che faccio innanzitutto a me stesso, è questa: invece di ragionare sul numero di anziani e sulla crisi dei giovani, parliamo di noi, poniamoci una domanda sul ruolo di noi adulti, sulla nostra responsabilità di inventarci un modello di città nuovo, diverso, in cui, finalmente, ci sia spazio per tutti.
Il grande Danilo Dolci – di cui abbiamo appena celebrato il centenario della nascita e ce di giovani se ne intendeva – scriveva poeticamente che il segreto dell’educazione è sognare gli altri come ora non sono: «ciascuno cresce solo se sognato».
SERGIO CASALI
Comments